da Domenica24ore
À me mi piace il mitico bombolone di Davide Pulluli. S9 ingrissa solo a guardarli, invitanti, rotondi, rigonfi, caldi. Se ti avvicini, rilanciano un grasso messaggio: «Prendimi e mangiami, poi leccati le dita. Non sai che ti perdi. Non stringermi troppo forte, altrimenti spruzzo crema!». E con l’ultimo respiro impastato di olio urlano: «Abbi fede in me, non nel tuo dietologo. Salva un giacimento in estinzione, non contribuire a un mestiere in formazione». Il riferimento è sicuramente ai dietologi, ai trainer del digiuno, al turismo del tutto fumo, niente arrosto.
Sono i bomboloni, in qualche caso vestiti da ciambelle con buco, oppure chiamati krapfen da chi ha cultura mitteleuropea, ma sempre fritti, grassi ai quali nessuno può resistere. Già il termine “bombolone” potrei definirlo in maniera soggettiva “onomatopeico”, perché esprime un gusto pieno, lungo, la cui obesità interiore riempie già la bocca. Lo rinnega solo il popolo delle merendine, che nulla ha a che fare con la civiltà del grasso. Unto e rotondo, è una goduria del palato. Anche se mode e diete lo combattono, non tramonterà mai il suo gusto, ma, se Dio vuole, sempre ci saranno sacerdoti del verbo, ed è nel bar della pasticceria della mia città, Pescara, dove ancora si friggono con caffè e cappuccino (di livello) un piccolo segno di fede in questa bomba calorica, servita in un piattino (trattasi di ciambella mignon ma egualmente indulgente) per diffondere il vangelo della regione del piacere.
Speriamo che questi predicatori del gusto non siano una minoranza disarmata di fronte all’esercito della salvezza, armato di zuppe, diete e punti sulla bilancia che, al grido «chi mi ama mi segua!», si dirigono in palestra piuttosto che a tavola. È sempre più difficile, al mattino, scoprire nel bancone dei bar queste “bombe”, ricoperte di zucchero che lasciano il segno nelle mani o sulla carta, al suono del friccico del retrobottega, dove ciambelle e bomboloni fanno il bagno nell’olio al ritmo di un singin’ in the rain. Quale musica per le orecchie, ma soprattutto che swing per la gola. Quale allegria rispetto alle brioche, ai croissant tutti uguali, fatti con lo stampino, simbolo della civiltà della freddezza.
Ho ascoltato pochi giorni fa una musica interpretata in modo magistrale dalla padella di una cioccolateria di Madrid, Valor, dove, in luogo del bombolone made in Italy, il fratello fritto era il churro, quasi a consacrare una comunità europea del «fritto mi ci ficco». Un suono sempre più assente tra le pasticcerie-bar anche e soprattutto d’estate al mare, sulle spiagge dell’Adriatico, quando un tempo signori dai capelli bianchi, a piedi nudi, con cesto in spalla e con fare fiero gridavano: «Bomboloni caldi!». Quel bombolone forse non c’è più, sostituito dal krapfen, termine più chic, magari servito con pinza e guanti bianchi, altro che carta gialla. La parola “friggitoria” è un suono di grasso che cola: alla sola pronuncia si assiste a un fuggi fuggi, ma il bombolone ha mille vite. Sono certo della sua rinascita, magari nei mercati dove è nato: San Lorenzo a Firenze, nella Romagna delle spiagge, dopo mezzanotte all’uscita delle discoteche per accompagnare il cappuccino della buonanotte (anzi! Buongiorno!), ma soprattutto nei bar dei golosi a colazione e ovunque ci sia la resistenza alle merendine. Sine qua non.
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